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TESTI CRITICI

Incognita

Il paesaggio vuoto e "piccoli cimiteri"

Paulo Barone

Scrittore, psichiatra e filosofo

Sempre più di frequente lo spazio intorno riflette solo un biancore diffuso e lo sguardo trova il campo del visibile ( e del dicibile) così scarno da sembrargli vuoto. Una scena può definirsi vuota perché disadorna di forme e figure o anche perché dominata dalla presenza di oggetti isolati e abbandonati, privi del loro colorito ordinario, snaturati. Sia nel caso di un quadro senza soggetto che in quello di una natura morta regna il silenzio e l’atmosfera resta sospesa. Si può arrivare a sostenere che “laddove gli antichi pittori di paesaggio amavano riconoscere il luogo della vita,  Giorgio Morandi – in quanto pittore di nature morte –sembra suggerire che ci si astiene dal vivere” ?[1]

Secondo Rilke la concezione del paesaggio muta nel corso della storia, segnando ogni volta  precisi rivolgimenti di visuale. Nell’antichità oscura degli inizi è il corpo dell’uomo, la sua relativa novità, ad attirare l’attenzione, ad essere  “coltivato come una terra” e trattato come una bellezza da contemplare. Tutto il resto è appena accennato, nominato con la sola iniziale. L’arte cristiana perde il rapporto con il corpo, che torna presente solo all’inferno, e lo stesso paesaggio del mondo è trattato come una kleine Vergänglichkeit, una “piccola cosa caduca”, come una Streifen von übergrünten Gräbern, una “fila di tombe rivestite di verde”,  che acquista rilevanza unicamente in relazione all’immensità del Cielo, la sola realtà che conti.

E tuttavia, grazie alla profonda devozione nei confronti del cielo anche la terra comincia ad essere guardata e scoperta con occhi nuovi, a rinascere. Lo sviluppo è notevole: si dipinge il paesaggio e tuttavia si guarda a se stessi. Anche se fa da sfondo a una madonna – come nella Monna Lisa – l’insieme dei monti, alberi, ponti, cieli e acque non è tuttavia un’impressione o un pensiero soggettivo: l’umanità intera si riflette in prevalenza nella figura della madonna, mentre il paesaggio rivela un che di remoto e di estraneo. Persino una certa ostilità e indifferenza, così da dare – dice Rilke –  alla nostra esistenza un nuovo significato e al nostro destino un paragone risolutore. Attraverso un lungo processo di separazione reciproca “si comincia a comprendere la natura quando non la si capisce più”, quando essa diviene per noi, ormai solitari, una “grande realtà oggettiva”, altrettanto solitaria. E così, via via che l’essere umano diventa sempre più incerto e barcollante, una cosa tra le cose, “infinitamente solo”,  nascono quadri e paesaggi in cui “non accade nulla”: “mari vuoti, case bianche in giorni di pioggia, strade su cui nessuno cammina, acque indicibilmente appartate”[2]. Ciò che accomuna uomini e cose si è come ritirato nella medesima profondità dove stanno le radici che nutrono gli uni e le altre.

Sottoposto ad un processo inarrestabile di rifacimento e di rifinitura via via sempre più intenso e accelerato, il paesaggio di  uomini e cose muta ancora. Le forme e le figure della percezione ordinaria, sollecitate di continuo, subiscono una compressione radicale e fulminea, che le spinge verso l’orlo estremo dei loro particolari minimi, ultimi, già quasi del tutto impercettibili, oltre i quali – se le cose procedono oltre - tutto cade nell’insignificanza e nell’indistinzione più completa.

Così, ad esempio, una figura nella folla, certo: ma di questa figura innanzitutto il suo volto, e  particolarmente il suo sguardo. Oppure una vita tra le molte, ovviamente: ma di questa vita innanzitutto il suo presente e in modo particolare “quella volta” o, meglio ancora, quell’attimo irripetibile. O ancora, un individuo nella catena delle generazioni, com’è ovvio: ma di questo individuo soprattutto le circostanze biografiche e in particolare gli effetti personali, gli occhiali, un ciuffo di capelli, il timbro della voce.

Nello sguardo improvviso, nel momento fuggevole, in qualche “effetto personale”, ne “la sola volta”, o ancora nel semplice respiro con cui, di volta in volta, si fa presente per poi subito sparire, la forma consueta delle cose giunge di colpo al limite delle sue possibilità espressive, dove vive raccolta in pochi elementi ultra-rifiniti, impercettibili e sfuggenti - appunto un respiro, una luce momentanea, un dettaglio -, come sospesa e schiacciata in modi di essere attraverso cui essa sembra già scomparsa prima ancora di apparire.

Non più, davanti agli occhi, la genziana azzurra, le stelle della sera, la stanza dietro il giardino, il tiglio o la penna. Piuttosto ciascuna di queste cose percepita a velocità fulminea, correndo dal bordo della sua superficie esterna sino al punto più estremo e rifinito del suo volume ordinario, che si squaderna e  si dissolve nello stesso istante, come se implodesse di colpo.  Come se davanti agli occhi ci fosse innanzitutto lo sbuffo di fumo o la nuvola di polvere di qualcosa - cioè il segno, più che dell’effettiva presenza di una cosa, della sua immediata sparizione, del suo assentarsi improvviso, della fuga tra sé e sé -  e solo dopo comparisse, ricostruita a posteriori, la figura “intera”, ordinaria, degli oggetti conosciuti.

Adesso, davanti allo sguardo nulla, nulla di consistente. Come se ci fosse solo un enorme spazio bianco, dove nulla si distingue. Come fu detto: “Faces blanches sans traces une seule rayonnante blanche à l’infini sinon su que non. Lumière chaleur tout su tout blanc coeur souffle sans son”[3]. (“Volti bianchi senza tracce una sola radiante bianca all’infinito o altrimenti si sarebbe saputo. Luce calore tutto saputo tutto bianco cuore respiro senza suono.”). E perciò “impossibile ritrovare quel punto bianco perduto nel biancore” (“Et plus de question de retrouver ce point blanc perdu dans la blancheur”[4]).

Un paesaggio svuotato delle figure distinte e proporzionate, che adesso è divenuto denso, compatto e liscio per aver colmato di colpo tutte le distanze, le latenze e gli intervalli attraverso cui quelle stesse figure un tempo si snodavano rendendosi riconoscibili. Un paesaggio adesso popolato innanzitutto dalle quintessenze delle cose, dalle loro quanto mai precise rifiniture, dalle loro espressioni millimetriche e da certi loro dettagli sfuggenti, dai loro respiri, ovvero da elementi irripetibili e incomparabili che incorporano fulmineamente  tutto il contesto che li ha generati e ne arrestano la spinta generativa precisamente nella loro presenza infinitesimale.

Adesso questa presenza evanescente, questa momentaneità respiratoria brilla, ma non si lascia più inquadrare e ricomprendere tra il prima e il poi, tra il fotogramma antecedente e quello successivo, o nel transito continuo tra il centro e la superficie, tra l’intero e le parti, tra l’essere potenziale e la realizzazione : quando tocca un momento del genere, quando raggiunge la velocità, la precisione e la sottigliezza del proprio stesso respiro, la forma ordinaria delle cose esaurisce ogni margine di movimento e cessa quindi di comparire, come di consueto, sullo sfondo o all’interno di una serie di eventi simili, come la sequenza di un flusso temporale, come la maglia di un’articolazione logica o come l’anello di un concatenamento narrativo. Essa non scorre più.  Equiparandosi di colpo al proprio respiro, essa è diventata – e diviene ogni volta -  tutto quello che poteva diventare. Gli estremi del suo volume, dispiegati fulmineamente, si toccano, coincidono. La sua presenza è un punto. Il suo presente sfuma di colpo: appena si presenta è già svanito.  E così, adesso è una forma esaurita e spezzata, rotta e slegata dalla serie, una forma che cade a terra, abbandonata, in disuso, come un rottame, un residuo, una scoria. Che si accumula assieme alle altre, in vasti, immensi agglomerati, che superano le montagne più alte fino a toccare il cielo. Cumuli di forme tutte dispiegate, rotte e esaurite: anche forme naturali e viventi, come l’aria, sempre satura di particole invisibili di veleno; il mare, ricolmo fin nel profondo dei polimeri della plastica e svuotato dei pesci; le foreste, in estinzione all’ombra di più grandi foreste già estinte; le terre agricole, imbevute sino all’orlo di correttivi chimici; la vita degli animali, compressa, stimolata e abbreviata di colpo.


Mia cara piccola, sono uscito presto senza riuscire a salutarti. E’ tutto pronto. Rimani calma e cerca, se puoi, di non preoccuparti quando aprirai gli occhi e non troverai nessuno. Supera il primo momento di sconforto e l’impressione di trovarti in una dimora desolata, spettrale, in rovina, dove si nascondono segreti impenetrabili e forze oscure. L’atmosfera ti parrà strana, senza molta affinità con l’aria del cielo, come “emanata da un vecchio albero morente, un muro grigio, un laghetto muto, e più simile ad un vapore pestilenziale e mistico, stagnante, inerte, appena percepibile, e dalle tinte plumbee”[5].


Certo, “the discoloration of ages had been great” (“lo scolorimento dovuto al passare del tempo è stato profondo”). “Eppure nessuna parte dell’opera muraria della casa è crollata; solo pare esserci una strana incongruenza tra l’incastro ancora perfetto delle sue parti e lo sgretolamento delle singole pietre”[6].

Quando aprirai gli occhi forse ti sembrerà di “respirare un’aria di dolore”[7]. Perché il paesaggio è vuoto. E in ogni suo angolo esso non smette di riempirsi di carcasse, rottami, oggetti dismessi, di plastiche di ogni tipo. Di forme rotte e slegate. Forme esaurite. Non solo di utensili qualunque. Anche “le cose animate, le cose vissute, le cose che sanno di noi, si avviano al tramonto e non possono essere sostituite”: anche “l’abito, il mantello, la fontana”[8]. Poi anche l’albero, il mare e il profumo dell’aria.

E assieme a queste gigantesche colonne di rottami e detriti sarai forse spaventata dalla violenza del vento, dai sui cambi continui di direzione, dai respiri in tumulto, “dall’eccessiva densità delle nuvole” che gravano e sostano addosso alle cose. Noterai “la velocità con cuile nubi volano e si scontrano”, e “le enormi masse di vapore in tempesta”, “la luce innaturale delle esalazioni gassose”[9] che avvolgono la casa.

Eppure, non ti scoraggiare, non temere. Il paesaggio dinnanzi agli occhi è vuoto, è vero.

E non c’è più nulla da vedere. E tuttavia ogni singolo respiro di ciò che ti circonda potrebbe parlarti come niente prima d’ora. In quella sfuggente sfumatura avresti accanto le cose come non sono state mai: invisibili ma assolutamente singolari, passeggere ma in sospensione sulla cima immobile del tempo, indeterminate ma cariche di una bellezza senza pari.

Se il respiro da solo ancora ti disorienta, concentrati sugli immensi agglomerati di rottami. Le forme deposte e slegate delle cose non sono rotte in un segmento qualsiasi della loro figura, ma nel punto in cui gli estremi del loro volume potenziale, completamente e fulmineamente dispiegato, si toccano e coincidono di colpo. In quel punto il loro volume ordinario implode e il respiro cessa di essere scambiato tra l’interno e l’esterno, come d’abitudine.

E piuttosto sale. Il respiro condensa adesso l’essenza vitale di ogni cosa e ben serrato in quel punto sale in verticale; e mentre sale per uscire in alto, dalla testa, come fosse l’ultimo respiro, incide il suo passaggio, tracciandolo  nel cranio della forma, la quale rompendosi cade giù. Le forme rotte e accatastate sono ora come tanti teschi in un cimitero. Ogni cranio presenta le sue linee di sutura tra le ossa che lo compongono. Il respiro le ripercorre come fossero i solchi in cui sta incisa la sua voce originaria, la propria inconfondibile vibrazione sonora. A volte esso ripassa la sutura coronale o quella sagittale nella speranza di aprire nuovamente il forame posto al centro della testa, come alla nascita, e sostare allo scoperto, poco oltre il capo, finalmente, per una volta, libero (come in India).

Se avrai pazienza e saprai ascoltare, potrai considerare le cataste di forme rotte non come un materiale inerte, ma come un immenso archivio di impronte respiratorie.

Per Rilke la segreta linea sonora tracciata nel cranio delle cose costituiva il loro Urgeräusch, il loro rumore originario, la loro voce sottile. Era questa la linea da seguire dinnanzi allo scomparire delle cose e al “ritrarsi degli eventi nell’invisibile”, fenomeno cui l’epoca intera, “ivre d’absence”, assisteva, restandone a sua volta segnata. Solo questa linea acustica poteva d’altronde farsi carico, non senza sconcerto, dell’altra linea, meglio nota, basata appunto sull’acquisizione visiva della forma delle cose – un modo di essere palesemente in crisi, rimasto privo d’oggetto, tanto da poter dire: “l’opera della vista è compiuta”.  E solo questa linea poteva aspirare a sincronizzarsi con il semplice respiro, ridisponendo l’intero spazio attorno ad esso (“Atmen, du unsichtbares Gedicht”, “Respiro, tu invisibile poesia”).

Porsi all’ascolto di questo Urgeräusch – e dargli sonorità poetica con il proprio fiato – implicava la ricerca di un equilibrio che rasentava la perfetta immobilità, talvolta significava assumere una posizione simile a “coloro che naufragano o restano imprigionati fra i ghiacci dell’oceano polare, e riescono tuttavia a trascrivere fino all’ultimo le loro esperienze e sensazioni, per tracciare un’estrema curva della vita sul margine pulito della pagina”. ( Rilke a Wilhelm Hausenstein, 23 febbraio 1921).

“Petits Cimetières que nous sommes, ornés de ces fleurs de nos gestes futiles, contenant tant de corps défunts qui nous demandent de témoigner de leurs âmes”. (Rilke a Sophy Giauque, 26 novembre 1925)


[1] Y. Bonnefoy, Morandi, tr. di M. Guerra e G. Alberti, Abscondita, Milano 2015, p.29

[2] R. M. Rilke, Tutti gli scritti sull’arte e sulla letteratura, testo tedesco a fronte, a cura di E. Polledri, Bompiani, Milano 2008, p. 418.

[3] S. Beckett, Bing, in Teste-morte, Einaudi, Torino 1980, p. 87

[4] S. Beckett, Imagination morte imaginez, in Teste-morte, cit., p. 74

[5] E. A. Poe, La caduta della Casa Usher, a cura di L. E. Miller, testo originale a fronte, Leone, Milano 2011, p.20

[6] Ivi, p.22

[7] Ivi, p.26

[8] Rilke a Witold von Hulewicz, 13 novembre 1925

[9] E. A. Poe, La caduta.., cit., p. 64

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