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TESTI CRITICI

Di/Stanze

Broken the distance

Matteo Bergamini

Curatore, giornalista e critico d'arte,

direttore responsabile del magazine Exibart e collaboratore per il settimanale D La Repubblica.

Approcciando la selezione di fotografie di Luca Gilli, tratte dalle serie "Incipit" e "Blank", nella disposizione della mostra “Di/Stanze” al Museo Diocesano di Milano, è necessario un esercizio di sospensione, lo stesso che si richiede alla professione del giornalista e che il regista Carlo Mazzacurati ha perfettamente messo in scena nel film La giusta distanza.

Che si intende per “giusta distanza”? L'atteggiamento che il bravo cronista deve saper tenere rispetto ai fatti e alle persone che descrive: un atto di imparzialità.

Si sa, però, giudicare l'arte non è mai esercizio burocratico, e facilmente si è scossi dall'entusiasmo, da una febbricitante eccitazione ad eccedere. La pratica dell'obiettivo di Gilli, al contrario, sembra rompere questo schema: si pone come una riflessione lenta e calibrata, composta di immagini ri-velate per particolari. 

 

Nella loro algidità questi scatti si pongono in un orizzonte che sembra rubato al mistero dell'iconografia che ricorda le parole de Le Porte Regali di Pavel Florenskij. Sono fotografie lontane da una celebrazione fisica, dalla carnalità, al confine tra mondo visibile e invisibile, dove gli espedienti della prospettiva sono annullati a favore di una visione oltre il limite. 

Con tali – empiriche – indicazioni, si compie il primo passo verso una possibile comprensione e interazione “intellettuale” con gli scatti di “Di/Stanze”; un aprirsi dell'orizzonte che sovviene solamente prendendosi il tempo di avvicinare queste immagini im-possibili, distanti dal reportage o dalla trascrizione “fedele” del soggetto, opzione impossibile in fotografia.

 

Basterebbe forse questo spirito per comprendere su quale soglia si pongono gli scatti di Luca Gilli, ma c'è dell'altro che rende questa ricerca un appassionante percorso critico sul quale riflettere. 

Scrive Teresa Macrì: “Il fallimento è urto salvifico al conformismo di classe di un certo mondo dell'arte, e si riafferma ancora come collante al concetto di rischio”. Sono parole contenute nel saggio intitolato, appunto, Fallimento, una disamina che indaga quelle “azioni” che determinano un'espansione dell'opera: il disastro come “metodo” di altre possibilità di creazione. La volontà umana di voler sfidare il limite, portando all'estremo la materia, e pertanto innescando l'errore a cui si associa la “rovina” è altresì un atto di eroismo, e ugualmente una dichiarazione di scienza e di fede, in grado – quando si evita o si insegue il collasso – di aprire nuove strade della conoscenza.

Ecco un altro incipit possibile per le immagini che compongono il percorso di “Di/Stanze”: una selezione di allusioni, occhieggiando a quel che appare e che invece si scopre essere altro, e altrove.

 

Il complice primo di questa selezione legata all'aspetto più “pittorico” delle immagini di Gilli – che già di per sé appare una contraddizione in termini, visto che parliamo di fotografie – è proprio la macchina fotografica, dispositivo che anti-accademicamente viene spinto oltre il “buon uso” che si vorrebbe nel ritrarre gli ambienti che vede e vive l'autore. 

Gilli si impossessa di queste architetture attraverso la cattura di forme che altro occhio non percepirebbe, raccogliendo particolari di second'ordine, scavando in spazi in transito, corrisposti temporaneamente della dimensione effimera della crescita, verso la funzionalità finale dell'ambiente.

Tempi di esposizione lunghissimi, dettagli che appaiono inquadrati al microscopio, soggetti che attraverso un obiettivo “normale” sarebbero stati nient'altro che banali frammenti murali, convivono e compongono questi frame travalicando ogni norma: mettendo a fuoco un paesaggio inesistente.

 

Scriveva Francesca Alinovi in un vecchio saggio, La fotografia. Illusione o Rivelazione? ancora attualissimo: “La nascita della fotografia, come tutta la sua storia, si fonda su un equivoco strano che ha a che fare con la sua doppia natura di arte meccanica: quello di essere uno strumento preciso e infallibile come una scienza, e insieme inesatto e falso come l'arte”.

É a partire anche da queste suggestioni che la composizione di “Di/Stanze” è stata realizzata attingendo a quelle fotografie di Gilli che più si allontanano dalla dimensione architettonica e si disperdono in un fiume carsico intrisodi pittura. 

Gilli, ricorrendo idealmente all' “errore” della sovraesposizione, è in grado di costruire con questi elementi una dimensione dai toni onirici, dall'appeal mistico, contemplativo: un percorso laico che, sotto un altro profilo, può idealmente ricondursi ai tesori del Diocesano.

Ventuno scatti “distanti” che sembrano racchiudere perfettamente l'assunto di Blanchot citato da Barthes ne La camera chiara: “L'essenza dell'immagine è di essere tutta esteriore, senza intimità, e ciononostante più inaccessibile e misteriosa dell'idea dell'interiorità ”. 

I frammenti di “stanze” ancora lontane dalla loro oggettualità e dal loro fine quotidiano, possono essere intesi e immaginati - riuscendovi o meno - solo tentando di annullare il divario che intercorre tra la prova trasposta e l'inquadratura originale. Ecco l'incrocio di “Di/Stanze” che si focalizza negli scatti di Luca Gilli, dove il nostro occhio è lasciato in balìa di una metavisione in cui la prossemica resta espediente di poco conto per tentare di afferrare qualcosa di certo. 

 

Pennellate di colore su muro e cemento umido, sacchi contenenti polistirolo, canaline elettriche, tracce di lapis da muratore e future bocchette d'areazione sono i soggetti trattati che restano – una volta fissati - lontani dalla loro natura e da qualsiasi altra forma comodamente riconoscibile ma che, con l'ausilio della storia dell'arte, sembrano trovare una sorta di collocazione sospesa: perdendoci in queste immagini si possono incontrare i grandi Maestri dell'Espressionismo Astratto, le emanazioni del Color Field, o gli Achrome di manzoniana memoria. Un fraintendimento generale o la possibilità di scoprire quella moltitudine di panorami che attraversano la produzione del fotografo.

Ed è in questo che si scopre il valore dell'arte: la capacità di disporsi come ente non monolitico e matematico, ma liquido. Sinuoso. E scatenante per inaspettate visioni.

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