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TESTI CRITICI

Psyche

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Xavier Canonne

Direttore del Musée de la Photographie, Charleroi

Il genere maschile, che la lingua francese attribuisce alla farfalla, le si addice ben poco, tanto che ci si domanda come mai, in francese,  il bruco, che è strisciante e spesso peloso, sia femminile, mentre la farfalla, che è così lieve e leggera, sia maschile. Non sono tanto la sua grazia o la sua fragilità a farmi propendere per il genere femminile, quanto le sue lunghe ciglia ricurve, antenne portate come una aigrette su un cappellino o come un tirabaci. Le farfalle attraversano la mia memoria come lo spazio delle fotografie di Luca Gilli: da bambino mi turbava scoprirle morte, prigioniere delle polverose tele di ragno: erano, negli abbaini dei solai, i primi delitti dell’infanzia, radiosa bellezza prigioniera nelle reti che taceva drammi segreti. C’erano, allora, molte farfalle sui campi o sul letame, anche se certamente meno di quanto mi piaccia ricordare, oggi, ripensando al loro involarsi davanti alle nostre corse che lasciavano al suolo fiori stupiti. Anch’io ne ho raccolte, nei retini verdi o rosa venduti per pochi franchi in primavera, e poi cloroformizzate. Oggi lo rimpiango: non si sapeva ancora, a quell’età, che non si possiede mai nulla e che la vita, come quella delle farfalle, è effimera e occorre approfittare tanto dell’istante quanto della loro breve danza.

Ed è forse proprio perché mi sono pentito e voglio riscattarmi che oggi le proteggo dai miei gatti che saltano per afferrare con le loro zampe queste fragili sculture così delicatamente costruite? O forse è perché  temo che le loro ali siano labbra destinate a restare mute, o lettere d’amore che nessuno riceverà, ma che lasciano sulle mie dita un poco di polvere colorata, simile al fard  sulla spalla del danzatore dopo che la musica è cessata?

Certo le farfalle risvegliano l’invidia negli insetti, la stessa di chi, un tempo, guardava passare gli aeroplani sulla campagna. Non tutti hanno infatti diritto a quella metamorfosi che fa di un bruco una farfalla e offre, in un sospiro, lo spazio a chi non conosceva che la terra. Vanno e vengono, le farfalle, mai di fretta, e disegnano il loro cielo: si posano, palpitano come mosse da un filo, pesando appena sulla foglia che le accoglie, pronte a ripartire. Hanno persino ispirato in francese, come in italiano, un verbo proprio, quel papilloner, quello sfarfallare che indica, nel suo essere un po’ dispregiativo, un movimento libertino e disinvolto. Ma il loro muoversi senza meta, il loro vagabondare è forse solo un desiderio febbrile di vivere un’esistenza tanto breve quanto è vasto il cielo e numerosi i fiori.

Di questa impazienza dicono bene le fotografie di Luca Gilli: il suo mondo è magnifico e pericoloso; ogni ombra è un pugnale e il fiore più colorato una mano che si chiude. In bianco e nero questo mondo sembra ancora più pericoloso, quasi fosse una giungla che nasconde le mille trappole di cui la farfalla è facile preda. In esso non ci si può impedire di vedere la metafora del mondo in cui viviamo: la bellezza minacciata da predatori di ogni tipo e l’innocenza dell’effimero ceduta ai calcoli di speculatori e profittatori, di un mondo che è sempre meno fatto per le farfalle.

Perciò occorre, ora, proteggere le specie minacciate di estinzione, creare, come è avvenuto con le riserve naturali, dei luoghi dove possano riprodursi per continuare a meravigliarci. Mi hanno parlato di un sacrario, in Messico credo, di una grotta verso cui le farfalle volano a migliaia per accoppiarsi o morire, facendo del suolo un tappeto colorato. Sarebbe allora sufficiente un lieve fruscio d’ali per sollevare, al di là del mare, un uragano che si abbatterebbe sul mondo nel più bell’involarsi di farfalle morte e vive, tutte restituite al cielo.

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