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TESTI CRITICI

Incipit

Il punto cieco

Luca Doninelli

Scrittore, giornalista, docente di etnografia narrativa 

all’Università Cattolica di Milano e di storytelling alla Iulm di Milano.


"Non è un fatto troppo noto che la parola inglese "black" nero, e quella spagnola "blanco", come le sue consorelle francese, portoghese e italiana, hanno la stessa radice. Credo, per quanto riguarda l'inglese, che la parola sassone abbia dato origine a due parole: "bleak", che significa scolorito (si dice "in bleak mood" di una persona che sia svogliata, malinconica) e "black", nero. Ma tanto "black" quanto lo spagnolo "blanco" hanno la stessa radice, perché al principio "black" non significava nero ma senza colore. In inglese poi questo non aver colore si è indirizzato dalla parte dell'ombra, e abbiamo "black" col significato di nero; mentre nelle lingue romanze lo ha fatto dalla parte della luce, della chiarità, e in spagnolo, in italiano, in francese, in portoghese si ha bianco nel significato di chiaro. E’ strano che questa parola si sia ramificata e abbia preso due significati opposti, giacché siamo soliti vedere il bianco come l'opposto del nero. Ma la parola dalla quale nascono entrambe significa: senza colore. Poi, come ho detto, ha preso due diverse direzioni".(1)

L’etimologia proposta da Jorge Luis Borges è controversa, e in effetti leggendola è difficile decidere se si tratti di un intervento di sapore scientifico oppure di uno dei suoi celebri racconti fantastici (ai quali in effetti somiglia molto). Alcuni dizionari etimologici fanno risalire “bianco”, “blanc”, “blanco”, piuttosto a “blink”, vale a dire balenante, scintillante, che nella sua forte componente onomatopeica ricorda il brillare della luce sulle lame dei pugnali e delle spade (non a caso di dice “arma bianca” di oggetti che di per sé si dovrebbero dire argentati, o grigio-argentati). Non un colore, insomma, ma un riflesso, o – se si vuole dar retta a Borges – un’assenza di colore. Siamo, in altre parole, nel campo dell’assenza, lo stesso dove troviamo “blank”, termine divenuto familiare con l’informatica, e che indica qualcosa di vuoto, uno spazio che è vuoto per definizione, e che perciò non è destinato a essere riempito di parole o immagini.

Non si tratta, in altri termini, di arredare il vuoto, di produrne una qualunque cosmesi. Gli autori della kosmesis, i restauratori cioè dell’ordine, non siamo noi. L’ordine o si trova già nel vuoto, nell’indeciso, nel neutro, nel riflesso incolore, o non esisterà nemmeno in seguito. O appartiene all’origine, o non esiste. Non è il prodotto di un intervento posteriore.

 

2.

La fotografia indaga da sempre questo enigma. A prescindere dai generi e dal temperamento del fotografo (reporter, documentarista, fotografo d’arte…), la fotografia non ha soltanto rivoluzionato il nostro modo di guardare e di riprodurre il reale, ma ha fatto del proprio limite (il rapporto con un oggetto ultimamente non modificabile) la propria forza centripeta.

Tanto che i suoi risultati più incontestabili si hanno là dove il fotografo non cerchi di fare l’artista ma piuttosto lavori sullo spazio, sull’interconnessione che lo separa dal lavoro dell’artista, avvicinandolo spesso, se mai, a quello del critico. La grande fotografia è grande, in altre parole, non perché è “arte” ma perché è, appunto, quello che è, fotografia – la cui collocazione sta nel crocevia neutro dove arte, critica e antropologia non risiedono ma dove, proprio perciò, sviluppano i loro commerci, i loro scambi. 

Questa è forse la sola certezza, il solo fondamento di un lavoro che, per altri versi, appare consegnato all’ambiguo, al grigio, all’indeciso, al “blank”, alla presenza che si rivela (se si rivela) nell’assenza. A suo modo, insistendo sul visibile, il vero fotografo cerca sempre l’invisibile, o meglio la trama, la tessitura dello sguardo, quella parte di universo che non è in realtà invisibile ma che semplicemente non guardiamo perché sostiene lo sguardo, appartiene cioè ai presupposti dello sguardo.

Lo sguardo infatti è tale perché contiene, trattiene, comprende anche ciò che non viene guardato. Un punto di cecità, insomma, che si insedia nel cuore del mondo visibile. Lo dice bene Jacques Derrida in uno dei suoi fulminanti capolavori finali: “[...] ciò che viene verso di noi, se deve costituire un evento, non lo si deve veder venire. Un evento è ciò che viene; la venuta dell’altro come evento è un evento degno di questo nome, vale a dire un evento che fa irruzione, inaugurale, singolare, soltanto nella misura in cui precisamente non lo si vede venire. Un evento che si anticipa, che si prevede, che si vede venire, non è un evento [...].”(2)

È al centro di queste riflessioni che mi sono imbattuto nell’opera fotografica di Luca Gilli. Nato come paesaggista (ricordiamo la sua bellissima serie dedicata al paesaggio islandese), Gilli non smette questo costume con l’ingresso in altre dimensioni dello sguardo, come possono essere i restauri di un palazzo, una cella frigorifera o la costruzione di un nuovo edificio per Expo 2015.

“Paesaggio”, dal francese paysage, indica lo sguardo che, anziché soffermarsi su un oggetto solo (pays) lo estende, indugia sui suoi margini, esercita un movimento di andata-e-ritorno, prima centrifugo e poi centripeto: talvolta lo moltiplica, ripetendolo, facendoci prigionieri della sua stessa infinità periodica. L’arte del paesaggio è l’arte (dolce ma anche mostruosa) dei dintorni. Eppure è nei dintorni che si definisce la natura spaziale di un oggetto: è la sua disposizione, il suo dialogo con ciò che circonda (a cerchi concentrici sempre più larghi) a definirlo, così come l’oggetto definisce il paesaggio in un dialogo che più è perfetto e più assume la connotazione dell’Infinito. Perché di un solo infinito possiamo parlare: quello che vibra dentro il finito.

Paesaggista di porte, di sedie, di stanze, di toni che si sovrappongono, di bianchi su bianchi, di punti disposti nello spazio di una stanza in allestimento, di impianti elettrici o idraulici da completare, di scale disposte di traverso per un’imbiancatura, di lastre metalliche acidate in attesa di utilizzo – in una parola, paesaggista di spazi – Gilli sembrerebbe abbracciare una poetica del Provvisorio, dell’Incompleto, del Precario, ma non è così. Il fascino della sua opera scaturisce piuttosto da un sentimento di ordine arcano, non rintracciabile (almeno nell’immediato) o descrivibile mediante un modello geometrico, ma ugualmente ben percepito, presentito – come ogni legge esatta, scientifica o artistica che sia, è sempre preceduta e seguita dallo spazio del suo presentimento: l’artista, lo scienziato, il fotografo entrano, attraverso la porta dell’intuizione, in uno spazio nuovo, quello che Maurice Blanchot avrebbe denominato lo spazio dell’opera.

 

3.

La fotografia, tra tutti i mezzi espressivi, è quella che condivide il maggior numero di aspetti con il pensiero tout court. Anni fa ascoltai il grande, compianto Gabriele Basilico in una conferenza dove cercò (con successo) di rispondere alla domanda che differenza c’è tra fotografare “qualcosa” e non fotografare niente? Ma potremmo anche chiederci: che differenza c’è tra pensare qualcosa e non pensare niente? Quand’è che pensiamo veramente qualcosa? Perché è un fatto che, nella stragrande maggioranza dei casi, noi crediamo di pensare qualcosa ma riferiamo soltanto cose pensate da qualcun altro (che a sua volta, nella maggior parte dei casi, non ha pensato nulla).

Similmente, il fotografo velleitario abbandona le grandi immagini (che so, Piazza San Marco, la Tour Eiffel, la Cupola di Brunelleschi, il Vesuvio) e si dedica alla scoperta dei particolari curiosi, suggestivi, ossia alla ricerca di un punto di vista inedito. E pensa di trovarlo per strada, girando qua e là. Il lavoro, tra invenzione e documentazione (dove ciascuno dei due termini rafforza l’altro, anziché ridurlo), che Luca Gilli ha svolto durante la costruzione del Padiglione della Santa Sede per Expo 2015, dimostra come espressioni quali “particolare” piuttosto che “veduta generale” appartengano più al lato mercantile della fotografia, mentre volendo cogliere aspetti più essenziali dovremmo parlare soltanto di visioni.

La grande visione che Gilli sviluppa in questo lavoro si concentra intorno al mistero della costruzione. Chi costruisce, per esempio, un edificio, così come chi lo progetta, ha una visione solo parziale della complessità che, attraverso l’azione del costruire, si mette in moto, e dell’ordine che ne governa l’insieme e ogni singolo aspetto.

Le maestranze procedono infatti nella realizzazione dell’edificio secondo una tecnica codificata che deve a sua volta misurarsi con il dettato del progetto, imponendo soluzioni tecniche talora inedite. Se, poi, le maestranze hanno a che fare con il Tempo – l’edificio in fieri – il progettista ha piuttosto a che fare con l’aspetto sincronico, strutturale dell’opera, vale a dire con lo Spazio. L’uso disgiunto dei due termini di un concetto che in realtà è unico (lo spazio/tempo) dice da sé quale sia la difficoltà di considerare un atto costruttivo – compresi quelli che compiamo noi stessi – nella sua complessità. Il progettista, per esempio, dovrà limitare le sue cure all’aspetto generale, alla struttura dell’edificio, al suo paesaggio visibile, vale a dire al suo modo di dialogare con gli altri edifici, o con la natura circostante, ma a chi toccherà raccontare l’incontro, l’armonia dei due ordini, quello strutturale e quello del lavoro di edificazione? Perciò, credo, molti grandi studi di architettura si rivolgono a valentissimi fotografi affinché catturino questo punto d’incrocio tra i due ordini. Solo una visione può compiere questa opera estrema, che è – come si vede – non innanzitutto un atto estetico, ma un atto di conoscenza. Ciò che, per venire a noi, impariamo osservando queste splendide immagini è qualcosa che nessun soggetto impegnato nella realizzazione dell’opera poteva realizzare dal proprio punto di vista, ma è, al tempo stesso, un imprevedibile (non visto, direbbe Derrida) punto di unione di tutti i punti di vista, la rivelazione di una selva di nessi che la singola mansione, o posizione, non saprebbe mai individuare.

 

4.

Nella fotografia di Gilli tutto è poesia, e tutto è logica. Il disegno generale eccede l’opera dell’architetto, i dialoghi tra l’opera e gli elementi che la compongono – il suo appartenere a un preciso paesaggio, ma anche gli infiniti paesaggi interni – si moltiplicano indefinitamente. La struttura di una volta conversa con le prove di colore sui muri, una scala in mezzo a una stanza arricchisce le proporzioni della stessa, creando simmetrie non previste, la rotondità del vano di una scala si disegna nel bianco perfetto del soffitto, il basamento reticolare su cui sarà posato il pavimento alleggerisce il cubo perfetto di una stanza evocando incertezze e spaesamenti, come se il peso di qualsiasi corpo si riducesse, una volta lì, a nulla, e nulla potesse farci più decidere quale sia il sopra o il sotto, la sinistra o la destra. Le picchiettature del colore sulla parete di gesso, ora tendenti al seppia ora al color crema, le canaline verdi e azzurre dei fili elettrici, la disposizione del nastro adesivo sui profili del pavimento o lungo la linea verticale degli angoli. Prove di bianco inventano finestre insistenti e perfette, il vano di una porta produce spazialità che evocano Nicholas De Staël, e l’allestimento dei fari in una sala si trasforma in un viaggio interplanetario, con tanto di veicoli spaziali.

Non c’è cosmo, per quanto piccolo, che non ne contenga infiniti altri. È la legge dell’ordine indecifrabile eppure evidente che governa l’universo, quell’ordine che accomuna il metodo di lavoro dell’architetto e quello – fatto di gesti depositati nei secoli – del muratore, del gessista, dell’imbianchino, dell’elettricista, del falegname, unendo in un’unica narrazione il calcolo rigoroso e l’apparente aleatorietà dei gesti dell’artigiano.

Questa serie di Gilli dedicata al Padiglione della Santa Sede a Expo 2015 coglie questo punto unitario, quell’architettura arcana e un po’ sconcertante che ritroviamo nella struttura dei cristalli, dei fiori o dei fiocchi di neve. Anche il lavoro umano sembra obbedire, se visto nell’insieme, a questa legge mirabile. Osservando i luoghi più strettamente legati al lavoro umano, e soprattutto al lavoro fisico, manuale, artigianale, osservando un edificio in costruzione oppure la carcassa maestosa di una grande fabbrica, ci coglie lo stesso sconcerto di quando cogliamo la forma di un fiocco di neve prima del suo scioglimento, o nella struttura frattalica di una pianta di felce. Una bellezza, un ordine, un trionfo della forma, della simmetria, dei rapporti aurei si impone sull’apparente caos.

E credo fermamente – trattandosi poi della Santa Sede, è ancora più opportuno sottolinearlo – che non occorra un’alba sui ghiacciai o la grandiosità del cielo stellato per chiedersi “chi ha fatto tutto questo?”. Già il mistero del lavoro umano – di qualunque lavoro – ci sospinge, se ben osservato, alla stessa domanda.


1) Conferenza/intervista tenuta da Jorge Luis Borges presso l’università di Córdoba, 1985. Trascritta integralmente da José Antonio Cedrón e pubblicata nel 1989 dalla rivista “Plural”. Riportata e da me consultata, in spagnolo, sulla rivista online “La Siega. Literatura, arte y cultura”, http://www.lasiega.org/index.php?title=Jorge_Luis_Borges._Charla_en_invierno_

de_1985:_%22...personalmente_no_me_interesa_el_co cepto de_democracia%2C_pero_sin_él_Whitman_no_habr%C3%ADa_escrito_sus_%22Hojas_de_hierba%22%2C_lo_cual_ser%C3%ADa_una_lástima...% 22. Traduzione di servizio a cura dell’editore di questo volume.


2) J. Derrida, Pensare al non vedere, Jaca Book, Milano 2016, p. 82. I corsivi sono miei.

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