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TESTI CRITICI

Incognita

Il tempo lasciato solo

Luca Doninelli

Scrittore, giornalista, docente di etnografia narrativa 

all’Università Cattolica di Milano e di storytelling alla Iulm di Milano.

Premessa

Per parlare delle immagini della raccolta Incognita che Luca Gilli dedica alla scuola al tempo del lockdown e della d.a.d., è necessario fare i conti con alcune parole destinate a ingombrare il nostro sguardo: parole come per esempio “essenziale”, oppure “minimalismo”, che potrebbero affiorare alle nostre labbra alla vista di questi scatti.

Possiamo chiamarle parole-tappo, parole-censura, parole-poltrona. Parole che nella maggioranza dei casi non dicono qualcosa che sappiamo ma che noi semplicemente collochiamo al posto di qualcosa che non sappiamo, per coprire un buco nella visione.

Ci capita di usare frasi come: ridotto all’essenziale. Ma che cosa è essenziale, che cosa è essenza? Diciamo: l’orizzontale e il verticale sono essenziali, l’obliquo e il curvo no. E perché mai? Oppure diciamo: pochi colori essenziali. E, di nuovo: perché pochi colori sarebbero essenziali e molti colori no?

E ancora: le immagini di Luca Gilli sono davvero ridotte al minimo? Che cos’è il minimo?

Se il processo di riduzione muove l’artista a togliere dalla propria opera tutto ciò che è “di più”, come si decide questo “di più”?

Proprio a questo livello entra in gioco la genialità dell’artista, per il quale l’essenziale non è una certa immagine, un certo oggetto ma piuttosto la sua stessa “intonazione fondamentale” - come la chiama Roman Jakobson in un celebre saggio su Puškin - ossia ciò che deve penetrare nella memoria e nel sentimento dello spettatore/lettore a definire in modo indelebile la sua unicità: quella cosa insomma per cui il fruitore avveduto sa riconoscere il nome dell’artista al primo verso, alla prima parola, alla prima nota.

Ma, in questo senso, tutti i grandi artisti, compresi Gian Lorenzo Bernini, Paolo Veronese o Gustav Mahler, si possono dire a buon titolo cacciatori dell’essenziale.


Gilli

Le immagini di Luca Gilli non rinviano affatto a quell’idea di vuoto o di rastremazione dello sguardo, che ci si aspetta accompagni ciò che chiamiamo essenzialità. Al contrario, l’impatto visivo rinvia piuttosto a una pienezza, all’impossibilità di aggiungere alcunché, oso dire: a una certa sontuosità, a una certa magnificenza. Guardandole, guardando i banchi, le sedie, gli attaccapanni, le lavagne di Incognita,
qualcosa ci spinge a considerarne piuttosto la bellezza.

E questo credo sia il messaggio fondamentale, molto semplice, di Incognita: il lockdown e la d.a.d. ci hanno insegnato che cosa grande e misconosciuta sia la scuola, quale enorme responsabilità - non soltanto civile e morale ma anche e forse innanzitutto estetica - sia il mettere insieme dei corpi umani, dare forma a quel naturale bisogno di comunità che costituisce l’uomo fin dalla sua venuta al mondo, dare forma all’evidenza per la quale l’azione fondamentale di ogni essere umano - quella cioè di conoscere sé stesso - non si può svolgere senza l’incontro con l’altro da sé.


La gerarchia delle cose

In una scuola deserta cosa ritrae Gilli? Uno spazio, certo, ma uno spazio arredato. Anzi: propriamente è lo stesso arredo a dare forma allo spazio. E' vero che Gilli non fotografa tanto “le cose”, dal momento che è proprio lo spazio che le contiene/trattiene a costituire l’oggetto del suo interesse. Eppure è proprio questo sguardo, che possiamo chiamare circostante-comprensivo, ciò che dà struttura e consistenza all’oggetto.

Di qui la circolarità del rapporto. La “cosa” infatti non esiste in sé, se non come carattere dello spazio: che è a sua volta il carattere della “cosa”.

Abbiamo fatto una sommaria campionatura degli oggetti rappresentati. Se infatti la tensione dell’artista è tutta tesa ad afferrare il carattere dello spazio e non quello degli oggetti, la ricorrenza degli oggetti acquisterà una forza narrativa speciale. Gli oggetti non sono - per esprimerci in termini di sintassi corrente - dei nomi, e tantomeno dei nomi propri. Sono piuttosto aggettivi, attributi
dello spazio. Ma proprio perché Gilli non ritrae banchi, cattedre, lavagne ecc., diventa significativo contarne la ricorrenza nella sua ricerca di definizione di uno spazio.

Il risultato del gioco è sorprendente. L’oggetto che ricorre maggiormente - più dei banchi, delle sedie, delle lavagne - è l’attaccapanni. Quello che compare di meno è la cattedra.

Ogni racconto è fatto di segni e di simboli. Segni e simboli sono la roccia, il fondamento su cui cresce la narrazione. A differenza dei nostri racconti, segni e simboli non mentono. Gli attaccapanni di Gilli sono i testimoni di un popolo silenzioso. A volte ci turba l’assenza di indumenti, altre volte qualcosa, un pezzetto di vita, vi resta come impigliato: un sacchetto da ginnastica, due sciarpe, tre felpe, un costume da tigre destinato a qualche recita carnevalesca in stile fantasy, un popolo di camici bianchi, guanti di lattice.

Sotto uno di questi attaccapanni, vuoto, c’è una sedia con la seduta stranamente dalla parte del muro. E' l’immagine più singolare, più parlante di tutta la raccolta: è come se, nella sua esilità di legno e metallo, quella sedia volesse sostenere un peso che non si materializza ma che si avverte. Qui, la densità dell’immagine dipende tutta dalla posizione della sedia, da qui comprendiamo quanto è pieno (intollerabilmente) il vuoto di quell’appendiabiti.

Il pensiero corre per un istante a Jannis Kounellis e alla poesia dei vecchi abiti appesi. Certo, non è così che Gilli ci presenta i suoi arredi: Gilli abolisce il nero di quelle vecchie installazioni, lo sovverte in bianco, in lento bagliore.

Ma se l’intenzione estetica allontana gli artisti, il Tempo li riavvicina: sarà un mese anziché un secolo, ma in Gilli come in Kounellis è il tempo a parlare, a raccontare - il tempo lasciato solo. Un anno o un secolo fa è scoppiata una pandemia, ha infuriato una guerra, si è verificato un cataclisma. E qualcosa si è salvato, in un anfratto risparmiato dall’ira degli eventi, per poter raccontare a noi la parte mancante della storia.

Se perfino l’aria sembra restare impigliata nei ganci di un attaccapanni, a invocare il ritorno di una vita che (ora ce ne rendiamo conto!) è bella e desiderabile, bene: non è così per le cattedre, che Incognita cancella o quasi. Se ne incontrano soltanto alcune, e hanno l’aria di qualcosa di scartato, di cancellato. I banchi, le sedie, i computer, le carte geografiche raccontano storie di vita, di allegria, di quaderni, di gesso. Le cattedre no.

Perché?

Eppure dovrebbero, loro, dare l’esempio, riversare cioè vita su banchi e sedie e attaccapanni e lavagne, svuotarsi per essere sempre più piene, farsi povere per accrescere la propria ricchezza.

Non è forse questa la Cultura? Non è dare dieci per ricevere venti? Quanta vita dovrebbe restare attaccata a quelle cattedre! Generazioni di insegnanti indulgenti o intransigenti, benevoli o sospettosi, pignoli o magnanimi... Generazioni di memorie segnate da una faccia, da un accento, da un tono di voce, da una frase ricorrente.

E poi tutti quegli eserciti di borse, di penne, matite, temperini, bianchetti...

Dove sono finiti? Dov’è finita la sola cosa che un educatore può e deve dare ai suoi ragazzi - ossia lei, la vita?


Verticale/orizzontale

Torniamo ora alle parole con le quali abbiamo aperto queste riflessioni su Incognita. L’opera di Gilli sembrerebbe in effetti - qui è d’obbligo il condizionale - ignorare ogni dimensione che oltrepassi il rapporto verticale/orizzontale. L’obliquo, il curvo vi ricorrono ma quasi per caso (un piccolo mappamondo, un crocefisso, la fuga di un corridoio), e comunque sempre nella prospettiva di una loro quadratura.

Ma occorre dar tempo allo spazio, e spazio al tempo. E guardare con più attenzione, concedere agli occhi il privilegio di fermarsi, di non scappare via. In un mondo organizzato in modo tale che tutto scappi via - immagini, emozioni, sensazioni, pensieri -, che ogni immagine si imponga per sopraffazione sull’immagine precedente, per poi essere sopraffatta dall’immagine successiva; in un mondo così fatto il soffermarsi, il sostare, l’indugiare sono l’unico lusso necessario. Gli artisti esistono per ricordarcelo.

Così, passando e ripassando gli occhi su questa raccolta ci si accorge che l’orizzontale e il verticale appartengono a una dimensione secondaria, di riporto, dell’immagine. Gilli, lo abbiamo già detto, non è un ritrattista di “cose” ma di spazi. Lo spazio chiede all’occhio di essere qualcosa di ben differente da una fotocamera interiore, fatta per registrare cose. Lo spazio, propriamente, non si guarda, anche se proprio lo spazio è l’oggetto vero del nostro occhio, che smette perciò di essere la fotocamera che non è mai stato per diventare una porta di partecipazione all’essere, al suo disvelarsi. Funzione dell’occhio è vedere l’invisibile (noi non vediamo l’essere), e dell’arte registrare quello che non avevamo visto: per il visibile basta una fotocamera in mano a un dilettante.

Nelle opere di Gilli noi non percepiamo alcuna spigolosità, nonostante la spigolosità degli oggetti rappresentati. La ragione è che lo spazio come tale è curvo, intorno agli oggetti non si muove in linea retta, li modifica e ne è modificato. Il gesto del fotografo, tra il tecnico e lo sciamanico, al centro di molteplici e spesso complicate relazioni, coglie questo collocarsi degli oggetti in un ordine naturale, precedente ogni divisione, ogni suddivisione: nessun colore è così stridente da non potersi armonizzare con gli altri, nessun oggetto è così fuori posto da non trovarsi sempre e comunque al proprio posto.

Nel rapporto tra lo spazio e gli oggetti che lo fanno esistere e da cui sono fatti esistere, la sensibilità dei diversi artisti porta, poi, a spostare la gamma dei toni più in direzione del dramma, del contrasto, oppure - come nel caso di Gilli - di una pacificazione che del dramma conserva la memoria, ma che non si documenta più nel presente, dove domina piuttosto una pace musicale, finale.

Questa è, in tutti i casi, la Fotografia.


Ombre

Per finire.

In queste immagini, come quasi sempre nell’opera di Luca Gilli, non ci sono ombre, o quasi. Gli oggetti non ne rilasciano alcuna: lo spazio luminoso le divora. Se qualcosa rimane, un raddoppiamento qualsiasi, più che un’ombra si palesa come una quasi impercettibile immagine speculare su una superficie lucida, come un pavimento di linoleum.

Una sola ombra, netta, si fa strada in questo gioco crescente di luce e spazio. Non l’ombra proiettata da un banco o da una sedia, ma l’ombra di una mano su una fotografia - il ritratto di una donna di colore - che attaccata a un filo pende dalla parete spoglia di un atrio.

A sinistra di quella foto, una porta si apre sul lungo e ampio corridoio, tutto luce, profumato di disinfettante. Da quella porta l’artista farà il suo ingresso nel mondo che si è proposto di ritrarre. In quel mondo noi non scorgeremo altre ombre degne di rilievo. L’ombra è una soltanto, ed è un’immagine dentro un’immagine, in mezzo a colori forti, come non se ne vedranno più nel prosieguo del cammino, dove tutto sarà risolto, e dove gli antichi conflitti in terra d’Emilia (don Camillo è un crocefisso rotto, Peppone un’immagine sbiadita di Carlo Marx) sono niente più che un reperto della memoria.

Ma l’ombra di quella mano sul viso di una ragazza straniera, figlia di altre terre più caotiche, più colorate, più povere, accompagna il cammino come una presenza segreta, che l’artista porta dentro di sé.

Perché è proprio così: l’ombra (del destino, della morte, del nulla oppure di Dio) non è quella che cade sotto l’obiettivo ma quella che l’artista trattiene nel silenzio, mentre meticolosamente ordina i suoi oggetti, i suoi spazi per poi ritrarli con umile fedeltà.

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