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TESTI CRITICI

Incipit

Soglie contrappunti e dismisure

Walter Guadagnini

Docente di Storia della Fotografia all’Accademia di Belle Arti di Bologna, Direttore di Camera, il Centro Italiano per la Fotografia di Torino, e direttore artistico di Fotografia Europea a Reggio Emilia.

BOLOGNA, 25 GIUGNO 2015

Il lavoro prende origine dallo spazio in divenire del Padiglione della Santa Sede all’Expo di Milano, un’architettura dello Studio Quattroassociati che Gilli trasforma in un luogo di apparizioni sorprendenti, al confine tra visibile e invisibile. L’artista si muove all’interno dello spazio in costruzione instaurando un dialogo primariamente con le superfici, trasformando la materialità delle strutture in pura apparizione luminosa, attraverso il suo consueto uso della sovraesposizione. Da questo punto di vista, rimangono ancora valide, come introduzione, le righe stese da Quentin Bajac pochi anni fa: “Ciascuna immagine di Gilli rivela uno spazio la cui percezione è letteralmente sconvolta da un eccesso di luce che compie una doppia metamorfosi, dei volumi e dei materiali: muri senza fine né angoli, spazi senza profondità, scale che sembrano portare nel nulla, pavimenti diventati liquidi, aplats colorati senza materia... Lo spettatore ne esce come abbagliato: colpito dal lampo troppo brutale della luce, assalito dalla vertigine, letteralmente scombussolato, come se avesse perso i suoi punti di riferimento percettivi abituali”. Gilli gioca sul confine labile tra visibile e invisibile, tra colore e non colore, tra bidimensionalità e tridimensionalità, cercando il punto dove queste apparenti dicotomie trovano il momento di equilibrio in una dimensione altra. Nell’occasione si accentua però uno dei caratteri primari di questa ricerca, quel lavorare sulle dismisure, sulla mancanza di informazioni relative alle apparenze del soggetto ripreso: solo pochi particolari, pochi scatti, accettano una dimensione almeno parzialmente descrittiva, la maggior parte si pone come reazione emotiva alla natura del luogo in divenire, alla suggestione del passaggio tra il disegno e l’opera finita. Gilli fotografa un interstizio temporale, che si manifesta nel predominio assoluto di un bianco che non è l’achrome manzoniano, ma pare piuttosto figlio di Ryman e di una stagione pittorica che poneva l’accento sui fondamenti stessi del linguaggio, attraverso l’estrema riduzione degli strumenti. Alla ricerca di un’essenzialità che da sempre è nelle sue corde espressive, Gilli ha trovato in questi spazi il luogo in cui la fotografia poteva a sua volta risalire a una sorta di originarietà, per l’appunto a una sorta di tabula rasa sulla quale far apparire il corso dei pensieri prima ancora che le ragioni del vedere. In questo senso, l’idea guida di questo lavoro può essere quella dell’incipit, di un inizio che attende il manifestarsi della parola attraverso l’immagine, in una semplicità raggiunta per via di levare. Ciò che rimane sono gli spazi insondabili, le apparizioni di colori artificiali che a loro volta creano altri spazi e nuove forme, dove le cose creano immagini di luce, pura.

 

MILANO, UN MESE PRIMA

L’Arte è poesia, analisi, trascendenza. Ci sono due differenti cammini che conducono ad essa. Uno è la materializzazione delle immagini interne dell’individuo. L’altra è la combinazione dei pensieri interni dell’individuo con la realtà esteriore. Esiste anche una terza via, l’esatta riproduzione della realtà, ma quest’approccio preclude le ispirazioni e i balzi dell’immaginazione, quindi non posso accettare questa come arte. Io ho scelto il secondo cammino, il cammino dell’incontro tra l’interno e l’esterno. Ciò che è importante in questo tipo di arte è il delimitare le parti del lavoro che creo, accettare le parti che io non creo ed instaurare una relazione dinamica in cui entrambi questi aspetti si compenetrino o si repellano l’un l’altro. Io spero che questo rapporto conduca all’apertura verso uno spazio che sia poetico, critico e trascendente. Io chiamo questo l’arte del yohaku – vacuità (spazio riecheggiante)” (Lee Ufan, Yohaku - Emptiness, in M. Lorenzelli, F. Sardella (a cura di), Enrico Castellani - Lee Ufan, catalogo Lorenzelli Arte, Milano 2015, p. 74).

 

LONDRA, 30 GENNAIO 1839

“All’incontro serale tenutosi presso la Royal Institution lo scorso venerdì sono stati esposti diversi esemplari di impressioni di ombre prodotte con la nuova camera francese [...] Dopo aver condotto, circa quarant’anni fa, diversi esperimenti con il mio compianto amico Mr. Thomas Wedgwood per ottenere e fissare le ombre degli oggetti ricavate dall’esposizione delle figure dipinte su vetro, proiettate su una superficie piana di pelle di daino inumidita con nitrato d’argento e fissata in una scatola fabbricata per contenere un uccello impagliato, abbiamo ottenuto un’immagine o copia fugace delle figure sulla superficie di pelle, che veniva però in breve oscurata dagli effetti della luce. Sarebbe utile per i ricercatori che gli esperimenti falliti fossero pubblicati più spesso, perché si eviterebbe così la loro ripetizione. Il nuovo metodo di dipingere tramite una camera promette di essere utile per ottenere rappresentazioni esatte di oggetti fissi e immobili, sebbene per ora sembrino solo possedere gli elementi appropriati per un disegno rifinito” (Anthony Carlisle, a proposito dell’invenzione della fotografia, citato in G. Batchen, Un desiderio ardente - Alle origini della fotografia, Johan & Levi Editore, Milano, 2014, p. 43; ed. or. Massachusetts Institute of Technology, 1997).

 

BOLOGNA, MARZO 2016

Se i nativi americani avessero incontrato Luca Gilli invece di Edward S. Curtis, lo avrebbero comunque definito uno “shadow catcher”? In effetti, l’origine della fotografia si dà per via di fissaggio delle ombre, attraverso il principio della camera obscura, come dimostra anche il racconto di Carlisle, nel quale peraltro si assiste al rovesciamento dell’assunto stesso che presiede al termine fotografia, attraverso una luce che cancella invece di scrivere. D’altra parte, se l’origine della pittura in Occidente è, secondo uno dei miti fondativi, quello del disegno del profilo dell’amato sul muro da parte della figlia di Butade di Sicione, è chiaro che le due narrazioni condividono una medesima volontà di fedeltà al reale o, ancor meglio, di sovrapposizione e sostituzione dell’immagine all’oggetto, o al corpo, assente, di cui l’ombra è traccia transitoria, ma comunque evocativa di una presenza, anche in assenza di memoria. L’ombra fissata non presuppone né il ricordo né l’immaginazione, essendo il suo compito la replica esatta del reale, ed è altrettanto chiaro che tale dimensione della fotografia a Gilli interessa ben poco.

Per questo, davanti agli spazi pure articolati del Padiglione, Gilli lavora pressoché senza ombre, perché nella sua trasformazione dell’ambiente in una flatland generata dall’eccesso di luce, prende vita uno spazio che appartiene all’immaginazione, liberato dalla contingenza della riproduzione, generatore di immagini concrete che muovono però all’interrogazione e alla suggestione, quasi mai alla risposta e al riconoscimento. Come ha scritto di recente Johannes Binotto: “La fotografia, dopotutto, non finisce con il semplice documentare l’esistente. Non si limita a riprodurre un’immagine di architettura, ma la distorce: lo stesso atto del fotografare crea una nuova entità spaziale. Quello che la fotografia di architettura mostra è, in senso letterale, una scena: non solo un luogo da guardare, ma un luogo creato dall’arte del guardare, dallo sguardo dell’obiettivo. La fotografia si fa architettura, un’architettura della fotografia.” (Traduzione di servizio; in origine J. Binotto, The Other Scene: On the Uncanny Architecture of Photography, in D. Janser, T. Seelig, U. Stahel, Concrete - Photography and Architecture, Fotomuseum Winterthur/Scheidegger & Spiess, Zürich 2013 , p. 230).

Gilli non cerca di fotografare un’immagine, si dispone piuttosto all’attesa della sua apparizione, si fa tramite del passaggio tra la realtà e l’immagine alla quale essa dà vita. Un’immagine che è diversa da quella originaria, non è ombra né traccia, ma trasfigurazione del reale. Emblematiche sono, a questo proposito, le fotografie delle pareti in via di imbiancatura: il soggetto reale di quelle immagini sono porzioni di spazio dipinte senza alcuna intenzionalità che non sia quella di imbiancare una parete; il risultato sono delle superfici che traducono in lingua fotografica tensioni cromatiche, spaziali ed emotive, persino fabrili si direbbe, proprie della pittura, senza indulgere ad alcuna tentazione di matrice pittorialista (se di origini si dovesse proprio parlare, sarebbe necessario trasferirsi forse negli Stati Uniti del dopoguerra, tra Chicago e la California, tra le memorie, le elaborazioni e i necessari tradimenti della “nuova visione” e del surrealismo messi in atto da figure come Aaron Siskind o Frederick Sommer, nella concezione dell’immaginazione come apparizione più che nello stile o nelle figure, ovviamente). Il meccanismo del confronto con la pittura, che tanta parte ha avuto nella storia della fotografia, è qui giocato e risolto con un paradosso concettuale: la fotografia rimanda alla pittura creando un quadro inesistente attraverso la fotografia di un’architettura.


ROMA, TRENTASEI ANNI FA

In ogni atto, in ogni attimo, si va a deporre, in giacitura semplice, l’atto e l’attimo del mondo. Non per metafora, ma proprio per respirazione, o esclamazione perfino, della mente; per alacri trame e interferenze della porzione di fisicità che preme e avvolge l’oltre, per transduzione, per valichi di echi e gradi non materiati, velando laceri e scontri, squarci e filitura della oscura, arcana, fissa fisicità. È sui confini dei colori che emana lo spettro della memoria; è la memoria che si azzarda, priva di corpo e di referenze, a farsi corpo e membra; che fioriscono e si interrompono, orditi, travasati, e dunque in atto, i rami della memoria. Che si istituisce come l’habitat, come l’architettura, come l’urna del dilanio e del flusso di orizzonti, genealogia di aree delibate, deliberate, captate in accenti, in timbri, in battiti, in moduli, in neumi, in numina [...] Frammentazione fratturazione sgretolo di una unica ostensione del trasalimento cieco, estensione anoptica del corpo e della memorabilità, a intermittenza dello sguardo, unico, unito: margini di fusioni, forme della emissione e della fuga, della dilatazione, ricerca della molecola luminosa con-divisibile, currens emphasis e insieme permeptio, da soglie estremamente delineate, in emissione.” (E. Villa, Apertura vocale per alto sigillo, in Vasco Bendini, catalogo Galleria L’Attico, Roma 1980).

 

GERMANIA, 2009

“Perciò il lavoro fotografico per un nuovo edificio non ha quasi più senso: le sue immagini saranno prodotte di per sé, disponibili e distribuite attraverso tutti i canali. Per chi fa fotografia di architettura, questo apre scenari nuovi. Non è più necessario usare la fotografia per comunicare la forma di un edificio, ma piuttosto per un tipo di messaggio complessivamente nuovo, che potrebbe essere l’atmosfera, oppure un confronto critico in merito ai materiali, ai metodi di costruzione o alle forme dell’edificio. O potrebbe essere il contesto di una storia, la sintesi di una lunga serie di storie, che sopravviva come Storia." (Traduzione di servizio; in origine R. Sachsse, Wenn Raumbilder zu Bildräumen werden, Berlin-München 2009).

 

OGGI, DI NUOVO

È, ancora, un’attesa che prende corpo nella figura del differimento della visione: la forma si manifesta spesso attraverso un velo, ambiguamente suggerito dall’ottica, non reale, che a sua volta pone in scacco le attese di chi guarda: vedo più a lungo per non riconoscere nulla. O per riconoscere un particolare che non rimanda a un intero, ma al suo nucleo formale, in sé sufficiente. Forme geometriche appaiono di frequente al termine della sequenza; spirali, vortici, rettangoli posti in orizzontale e in verticale, misurazioni dello spazio razionali, presa di coscienza delle dimensioni, degli intervalli, dei ritmi, mai figure fini a se stesse. Oggetti come geometrie, geometrie come contrappunti al dilagare smisurato della luce, all’affocata presenza del velo grigio che segna il passaggio ai radi ma potenti tasselli neri, soglie o già abissi, come in una partitura sulla quale l’occhio vaga, ricostruendo attraverso questi elementi una spazialità altrimenti indefinibile, dove l’alto e il basso invertono, spesso e non a caso, i ruoli. Poi, l’ultima immagine, il palco sul quale si è svolta la rappresentazione (la storia, forse), il farsi corpo – anche cromatico - delle memorie delle pagine precedenti. Sipario.

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