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TESTI CRITICI

Incognita

Incognita - Gente di Fotografia n.78

Marco Unia

Filosofo

Sin dal titolo Incognita richiama il particolare rapporto di correlazione e di dissociazione che si instaura tra le realtà note e la loro immagine ricomposta nelle fotografie di Luca Gilli. L’intuizione immediata del significato artistico delle fotografie di Gilli – che eccede la funzione documentale del progetto sulla scuola in tempo di lockdown – si produce a partire dal riconoscimento della familiarità degli oggetti – banchi, lavagne, palestre, computer, sedie – e dal loro immediato disconoscimento, che li situa in una dimensione alternativa, in un regno del bello, a sua volta fondato su un codice personale e tuttavia anch’esso immediatamente riconoscibile. Il più evidente elemento trasfigurante della realtà è la luce che inonda gli oggetti e i luoghi, è l’intensità del bianco che giunge fino al limite della negazione e che dissolve la consuetudine degli oggetti fino quasi a bruciare ogni possibilità percettiva. Ci sono immagini in cui la luminosità e il candore sono talmente portati all’eccesso che due lavagne e una finestra si fondono insieme, altre in cui un ambiente ordinario e privo di aperture diventa una sorta di cubo lucente, altre ancora in cui gli spazi sono trasformati in superfici geometriche piane, come nel caso degli spogliatoi e di ciò che supponiamo essere un tratto di palestra attraversato da una linea gialla di demarcazione, immagine che fa svanire del tutto il senso della profondità e delle proporzioni. La luce, elemento naturale, diventa così il segno più evidente dell’intervento dell’artista, che segnala il carattere artefatto della fotografia perché solo attraverso il ricorso a strumenti tecnologici si possono ottenere quelle luminosità e quelle rarefazioni.

Oltre al parossismo luministico a testimoniare la volontà trasfigurante di Gilli c’è la creazione di un nuovo codice estetico-geometrico. Gilli infatti inquadra gli oggetti spesso spezzandoli, mettendone in relazione dei frammenti, ritagliandoli, anche qui facendoli diventare artistici grazie ad alterazioni, a volte minime della inquadratura. La consuetudine con l’oggetto, il banco da cui esclude le gambe, le lavagne di cui mostra solo degli angoli, i tubi gialli isolati e le parti di mobili e sedie, è necessaria per creare il senso dello spaesamento e capire la nuova realtà in cui l’artista ci immerge: la precomprensione ordinaria degli oggetti è dunque dialetticamente necessaria per comprendere la nuova bellezza nella quale gli oggetti si iscrivono diventando fotografie.

Nello specifico del progetto Incognita, il rimando al mondo evidente e noto è una sorta di galleria degli specchi che approfondisce i diversi significati della realtà, impedendo al pensiero di riposare su una conclusione definitiva. Nota è la scuola in quanto edificio scolastico, tanto evidente da non richiedere neppure una sua specificazione e contestualizzazione, così autoevidente da essere il prototipo della scuola stessa: dalle foto non possiamo dedurre il luogo geografico – anzi una frase in francese, un logo di un motore di ricerca statunitense, il ritratto di una ragazza dall’aspetto africano sembrano consentirci di situarla in più luoghi – tanto meno possiamo identificare il tipo di istituzione con chiarezza, se si tratti di scuole medie, di un istituto tecnico, di un liceo, anche se ci sono piccoli indizi. Ma proprio questa chiarezza della percezione – di cosa altro si tratta se non di un edificio scolastico? – è fatta vacillare dall’opera di Gilli, dato che gli oggetti e gli spazi perdono l’integrità delle forme e dei colori. Quindi Incognitaproduce in noi un’interrogazione sulla scuola a partire dalle forme materiali nelle quali il processo formativo si compie: credevamo di sapere cosa è la scuola, anzi pensavamo di possedere la conoscenza immediata dell’archetipo, ed ora ne dubitiamo. Sappiamo davvero ancora qualcosa della scuola, del suo farsi, della sua importanza, dei suoi compiti, o non ne conosciamo nulla in fondo?

Per il progetto di Gilli risulta ancora più essenziale un’altra conoscenza preliminare che precede e condiziona la fruizione delle foto, la cui portata si può comprendere tentando un esperimento mentale. Proviamo infatti a guardare le fotografie di Gilli come se non fossimo assolutamente in grado di attribuire un momento preciso in cui sono state realizzate, anzi come se erroneamente fossimo convinti che si tratti di un progetto del 2017. Si tratta di un esperimento quasi impossibile da compiere, perché su tutte le foto grava l’ombra muta della pandemia, anche se non c’è alcun rimando diretto o indiretto nelle foto che stiamo guardando. Per quanto ne sappiamo fenomenicamente si potrebbe trattare di foto scattate in un giorno di sole durante le vacanze scolastiche e Gilli un cercatore di suggestioni. Ma “duemilaventi” invece compare all’inizio dell’opera e Incognita è un contro canto, un movimento dialettico, che parte dall’oscuro peso che ci portiamo nell’anima e che sappiamo aver ferito profondamente gli studenti e la scuola. In Incognita non c’è alcuna fotografia che richiami il dolore, o la decadenza, o la solitudine e in ogni caso tutte le immagini si portano dentro uno spunto di bellezza spesso inattesa: un equilibrio casuale, uno sbilanciamento simmetrico, un accendersi di un colore imprevisto, una forma originale, un artefatto. La nostra immaginazione, sapendo di un libro fotografico su una scuola chiusa in epoca di pandemia, si era già predisposta a soffrire, a immergersi nella memoria dolorosa, ma Gilli ci sorprende proponendoci una sorta di delicato rimedio, commovente come la mano di Gesù che Maria accosta al suo viso nella Deposizione dell’Antelami a Parma.

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